lunedì 30 marzo 2009

INTERVISTA - Emidio Clementi (Massimo Volume)

PUBBLICATA SU INDIE-ROCK.IT

Fnac, Milano. Tardo pomeriggio. Emidio Clementi (Massimo Volume) finisce il reading composto da estratti del suo nuovo romanzo 'Matilde E I Suoi Tre Padri' e si ferma a salutare e ringraziare la coda di fan ed amici che strepitano dal bisogno di comunicargli qualcosa. Dopo essersi concesso ad ognuno di loro, Mimì mi fa strada fino ad un ufficio dietro la sala del reading. Si gira una sigaretta (la prima di molte) e iniziamo una chiaccherata sulla scrittura e sulla musica.

Indie-Rock.it - La decisione di riformare i Massimo Volume è data dal fatto che credevate di aver qualcosa di nuovo da dire o perché ritenevate che quello che avevate detto era ancora valido e da propagandare?

Emidio Clementi - In realtà è stato veramente un caso. Siamo stati contattati dall'organizzazione del Traffic di Torino per una doppia serata, comporre musica inedita per il film 'La Chute De La Maison Usher' e suonare con Afterhours e Patty Smith. Non potevamo dire di no. Noi l'abbiamo vissuta come un rimpatriata per un occasione speciale. Dopo ognuno di nuovo al proprio lavoro. Poi però rimettersi a suonare e risentire il nostro suono che esce... C'è sembrato attuale e ci siamo chiesti: "Perché no? Perché non rimettersi a suonare e fare un disco nuovo?". Forse però l'idea non sarebbe venuta a nessuno se non ci fosse stata quella chiamata.

State lavorando al disco nuovo. Che tratti avrà questo lavoro, a 6 anni di distanza dal precedente?

A questa domanda non so davvero risponderti. Siamo ancora agli inizi, è prematuro parlarne. Io vorrei salvaguardare la poetica dei Massimo Volume perché è qualcosa che ci appartiene. Naturalmente vogliamo però fare un disco che parli al 2009, non so a quale tipo di pubblico, ma vogliamo che sia attuale. Non possiamo ripartire dal 2002. Ma ciò che sappiamo fare, non voglio perderlo nel tentativo di attualizzarci.

Il vostro modo di fare musica si è comunque propagato nella musica contemporanea. Citiamo Offlaga Disco Pax e, in parte, Vasco Brondi de Le Luci Della Centrale Elettrica su tutti. Avresti mai pensato di riuscire a fare scuola?

No, no, assolutamente. Ne parlavamo anche tra di noi e notavamo che ciò che ci sembrava un limite dei Massimo Volume era che fosse un progetto un po' fine a se stesso, nel senso che era difficile trovare, per noi, vie di fughe da quell'attitudine. Invece così non è stato e ci fa davvero molto piacere che si sia creata, mettendo le virgolette, una scuola. Noi non abbiamo inventato nulla, non siamo stati i primi. Io sono cresciuto, ad esempio, con gli Starfuckers. 'Brodo Di Cagne Strategico' è un disco che mi ha ispirato molto. C'erano molti punti di contatto con ciò che poi avremmo fatto noi. Cito anche i CCCP, anche se la loro poetica l'ho sempre considerata molto differente. Ho apprezzato molto che Max (Collini, Offlaga Disco Pax) e Vasco parlino di questa nostra influenza nella loro musica. Inoltre con loro ho un rapporto d'amicizia.

Come è stato tornare sul palco dopo tutto questa lunga pausa?

Bello, emozionante. La gente lo aspettava da tempo. C'è stata una bella prova di attaccamento da parte del nostro pubblico, di affettuosità, di presenza. E' anche vero che questa volta abbiamo raccolto ciò che non ci era stato dato, tranne che con l'ultima tournée forse. Oltre a coloro che ci seguivano all'epoca, si è formata una nuova generazione che ha scoperto i nostri dischi ed ha avuto l'occasione di vederci dal vivo. Questo oltre a farci piacere, ha allargato la fetta del nostro pubblico.

E a livello di sensazioni?

Più che sensazioni, ho avuto le stesse paure di sempre. Molto profane. Il bello di un concerto lo recuperi alla fine, ma li per li, in un occasione come quella di Torino, dopo sei anni che non suonavo dal vivo, hai poco tempo di pensare a ciò che c'è stato prima. Controlli se il basso è accordato, se ti ricordi gli stacchi, se senti abbastanza la batteria. Si rimane molto sul pratico. Nel frattempo io ho continuato a salire sul palco, ma ciò che mi mancava di più era la potenza del suono. Mi son continuato ad esibire in cose più fragili, più a bassa voce, mi mancava la spinta del suono.

Come vivi i differenti approcci al palco, da una parte il reading e dall'altra il live con i Massimo Volume? E' la mancanza di potenza la più grande differenza?

Sì, sicuramente. Mi piace muovermi per il reading, è più snello e più rapido. Non c'è soundcheck e attrezzatura da montare e smontare. Ma, probabilmente, c'è qualcosa di più sacrale che circonda un concerto vero e proprio. Io voglio continuare a vivere entrambe le situazioni.

Come vivi l'intimità del reading? Probabilmente leggendo qualcosa di più tuo, non difeso dalla potenza sonora, metti più a nudo la tua anima di fronte agli sguardi delle persone.

Ormai non mi spaventa più di tanto. Ne ho fatti davvero tanti. Poi, in particolare con quest'ultimo libro, che ha poco di autobiografico, riesco ad essere anche un po' più distaccato.

Quando hai iniziato a scrivere?

Al liceo.

Hai sempre prediletto questa forma racconto, o hai provato a sperimentare altre vie di scrittura?

All'inizio erano cose molto semplici, frammenti. Molto simili a ciò che poi è divenuta la poetica dei Massimo Volume. Tutto si risolveva in una pagina. Dopo il primo disco che abbiamo prodotto, ho sentito l'esigenza di allargare i miei confini. Mi stavano stretti i 3-4 minuti della canzone. Il passaggio complesso è arrivato con la scrittura da romanzo. In un romanzo è difficile tenere presente tutta la storia e avere la struttura ben chiara e visibile. Un racconto breve ha il vantaggio di essere facilmente rileggibile, mentre in un romanzo è più difficile vedere dove stai portando la tua storia. Son contento della mia carriera da scrittore nella quale son riuscito a crescere un passo alla volta, partendo da una piccola casa editrice, senza che nessuno mi assillasse.

Scrivere partendo dalle proprie ossessioni. Credi sia questo che il punto da cui parti per scrivere o hai altri motivi?

Credo che nella scrittura di ognuno, compresa la mia, c'è sempre qualcosa che ritorna in ogni libro. Io mi chiedo spesso perché scelgo di parlare di certe persone invece che di altre, di cui magari conosco meglio la biografia e le caratteristiche. Però spesso mi rendo conto che reputo affascinante da raccontare il momento in cui una persona si trova da sola ad affrontare il mondo. Persone che nella solitudine devono affrontare una situazione. Infatti, più o meno, ho sempre parlato di questo. Credo che sia vero che siamo spinti da ossessioni. Non so se siano proprio ossessioni, ma considerando che tornano con una certa frequenza, forse è questa la parola esatta.

Come definiresti di per sé, o rispetto agli altri, 'Matilde E I Suoi Tre Padri'?

Rispetto agli altri c'è un cambio di passo abbastanza evidente. Sicuramente è un libro borghese. Di una borghesia magari illuminata, ma pur sempre borghese. Ho cercato di lavorare soprattutto sullo stile dato che parlo di argomenti come il '77, come il movimento a Bologna e le case occupate che sono già stati descritti molte volte con un grande carico di pathos e nostalgia. Io invece volevo parlarne con distacco, come se ne prendessi le distanze.

A differenza dei tuoi precedenti lavori, questo romanzo non è autobiografico. Quindi mi sorge spontaneo chiederti, quanto c'è di autobiografico in un romanzo non autobiografico?

Sempre abbastanza. Quando descrivi le reazioni o i sentimenti di alcuni personaggi è normale che ti rifai alle tue reazioni, o sentimenti, in determinate circostanze. In una qualche maniera ha profondamente a che fare con me stesso. Credo che in questo libro, tante cose che appartengono a Laura, ad esempio, siano mie. Devi comunque diluirle. Forse è un percorso più affascinante dell'autobiografismo in senso stretto.

Come hai vissuto l'evoluzione come scrittore e come musicista?

In parte è stato un percorso parallelo con vari punti di contatto. Nella band c'è un lavoro più di equipe e i cambiamenti risultano più repentini quando tutti si muovono dalla stessa parte, anche se spesso diventano più complessi. Dal punto di vista letterario, c'è stato un distacco sempre più maggiore dal mio vissuto. Già da 'L'Ultimo Dio', che è un lavoro molto autobiografico, riuscivo già a maneggiare con maggior cura l'immaginazione. Prima mi risultava più difficile.

Ho letto, in qualche tua intervista, che ti turba l'aver perso "gli orizzonti sconfinanti dell'adolescenza"? Cosa rimane della tua adolescenza?

E' una domanda difficile. Il nucleo di me è rimasto comunque inalterato, anche quando ho preso coscienza di me. Le mie insicurezze e i miei entusiasmi credo che agiscano sempre stimolati dalle stesse cose. In quello non sono cambiato. Però è vero che col passare degli anni, l'orizzonte diventa sempre più limitato e cominci a farci i conti. Ma d'altro canto, è anche rassicurante. Prima avevo orizzonti molto più ampi e riuscivo a stemperare le tensioni in un futuro che sarebbe stato completamente diverso. Adesso ho capito che l'unica cosa che mi resta da fare è affinare quei pochi ambiti in cui ho capacità. In questo caso la scrittura e la musica. Si vive sempre su un filo facendo l'artista, ma questo equilibro precario mi protegge in un qualche modo.

Come ha influito la tua paternità in questo?

Parlando a livello pratico, ho iniziato a scrivere il libro prima che Nina nascesse. Dopo la sua nascita mi è stato più facile descrivere Matilde, perché ho potuto proprio vedere in presa diretta i suoi atteggiamenti. In generale, come succede ad ogni padre credo, oltre alla stanchezza, la paternità porta un maggior senso di responsabilità. E' anche vero che i figli riescono a spegnerti i pensieri. Quando sono agitato, passare mezz'ora con mia figlia mi rilassa molto.

Qual'è lo scritto o lo scrittore a cui ti senti più legato?

La scrittrice che prediligo è Katherine Mansfield, la sento molto vicina.

E su ciò che hai scritto te? Con quale hai un maggiore legame interiore?

Non per sviare la domanda, ma mi piacerebbe ricompattare tutto ciò che ho scritto in un unico libro e dire "questo". Quello che ha più limiti, è il mio primo romanzo 'Il Tempo Di Prima', ma anche li, ci sono delle pagine che, rileggendole, mi piacciono. Nello stesso modo trovo difetti in ogni mio romanzo. Mi piacerebbe dire l'ultimo, perché è l'ultimo, perché è l'ultimo di un percorso. Però, forse...dai, 'L'Ultimo Dio'.

Città come Bologna e Torino appaiono ricorrenti e fondamentali con la tua vita. Com'è il tuo rapporto con queste città? Quanto influisce?

Molto. Ad esempio, in quest'ultimo lavoro ci sono anche gli Stati Uniti con San Francisco e New York. Luoghi che, per ironia, ho visitato dopo aver scritto certe pagine. Allora sono andato a visitarle controllando se avessi scritto tutto giusto. Sai, ora con 'Google Maps' sei comunque aiutato, anche solo a vedere le disposizioni dei vari locali. Però ti muovi su un terreno più scivoloso. Quando conosci una città, e ne scrivi, riesci a muoverti decisamente meglio.

Conclusasi questa risposta, gli addetti ai lavori della Fnac ci invitano cordialmente ad uscire dal locale e a svuotare il piccolo palco dove Emidio aveva eseguito il reading accompagnato da un chitarrista. Ci congediamo con un abbraccio. E qualche augurio.


Mattia Barro

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